lunedì 18 marzo 2024

POESIA = GETULIO BALDAZZI


"Mutazione"
S'impennavano i rami sopra il monte
come sciarpe su visi intirizziti
E quelmonte era grigio. / E irami appena
disegnati dagli occhi si orientavano
al transito dell'aria condensata.
-
Nascevano alberi da ignote crepe,
fenditure col dono della vita.
-
Trascorrevo l'asperità dei tronchi,
i nodi di propaggini scomparse.
Le cince sventagliavano colori.
E i colori parevano il tuo volto.
Sicciavano ramaglie dalla nebbia
che diradava,
e dai legni cariati,
pulésco, uscivi a rinforzare il mondo.
-
Ondeggiavano liquide le ragne
a sud dove moriva l'orizzonte
sbarrato dalle case./ E l'orizzone
era antico/ trafitto da futuri
grattacieli.
Il tuo sguardo era il trreno
verde negli occhi della primavera,
lw dita i rami fragili del fico,
e il sorriso gli squilli dell'allodola
sfuggita ai cacciatori/ E quell'allodola
era antica / dai cielo sopraggiunta
dellEden,/ con il becco che serrava
dei pruni che spezzavano le spine.
-
Nel cupo la lacustre acqua crespavano
le oche / le piume immobili nell'aria.
E quell'aria ero io./ Ero l'umida aria
antelucana./ Dall'umidità
sbucavano i pennelli delle muffe.
E quella muffa ero io / dentro l'aurora,
enorme muffa di penicillina.
******
"Vita" ( a Clara)
Se la sera screziata affina i passi
con scarpe di vernice acuminate,
il tuo viso s'inalba e assembra giorni
di rondini lanciate a pieni voli.
-
Spersi suoni si orientano all'opale
acerbo del lampione. / L'acqua al soffio
lungo del vento riscintilla e sbozza
immagini sommerse./ Tremolio
lieve di echi scampati alla rovina
che il cuore sfiora e accosta a nuove voci.
-
Ti rispecchiavi, ridevi, ed era vita
la fontanella nel giardino i colto.
Indulge l'ora a soppiantare i gesti
di mani tormentate. / Cade il vecchio
tedio di figlia in compiti di madre.
-
Più nudo il tempo mi si porta via:
brincello rassegnato dentro il gorgo.
-
E' rosso il sole obliquo sulle case
che sanno trattenere le memorie.
-
Raggiungerai imbiancata di parole
il limite che stempera gli affanni.
-
Così è l'intreccio astuto della specie.
**
--- Dal volume "L'unica bellezza" Editoriale sette - 1988
***
GETULIO BALDAZZI

domenica 17 marzo 2024

POESIA = LUCA ARIANO


** ** I **
Chi ricordava i giorni di pioggia?
Eppure sono scesi come doni antichi
ma nessuno cura più quei boschi,
borghi sopolati e letti colmi
di rami e rifiuti.
Tracimeranno oltre i campi
e ti parrà tempo di risaie
ma è solo il miraggio di una coda
d'inverno: ma rrivò la stagione?
Resti di ponti romani ancora lì,
frutto empirico di architetti
videro legioni partire per guerre,
difendere confini labili.
Sono ancora bene armati i barbari
in tuta mimetica a sparare folle:
depredarono campi prima del felo
gettando cadaveri in pozzi.
Giungerà il momento di lagnarti
dei decenni passati, botteghe
e cibi delle feste;
con ancora il profumo dei bomboloni
l'amore un gesto lento da assaporare
come il profumo del cafè appena salito.
**
** II **
Quasi un fuggire dopo la malattia
dalla nebbia della Bassa
in autostrada, ma è solo un precipitare
nella pioggia lombarda
Chiuderai l'anno con gli spettri
e i loro volti più sfocati,
album di foto perdute in traslochi,
case da vendere in fretta,
forse per celare il passato.
Finirai come quel vecchio
che si crede morto da dieci anni?
Preparato tutto il terreno per l'oblio,
suo antidoto ai social, a quei negozi
ultimo appiglio di giovinezza
quando credeva di costruire il tempo.
Qui le bombe quasi una festa:
chiudono gli occhi come nulla fosse
e per te basta un bacio,
magari prima di una notte di brina.
Giacomo quando uscì dal portone
di Via Pisanelli pensava un altro giorno
di lotta ma quel colpo in testa
e Via Arnaldo da Brescia
l'ultima parola letta con gli occhi sbarrati.
*
LUCA ARIANO **
Luca Ariano (Mortara – PV 1979) vive a Parma. Di poesia ha pubblicato: Bagliori crepuscolari nel buio (Cardano 1999), Bitume d’intorno (Edizioni del Bradipo 2005), Contratto a termine (Farepoesia 2010, Qudu 2018) oltre a testi presenti in varie antologie. Ha curato Vicino alle nubi sulla montagna crollata (Campanotto 2008) e Pro/Testo (Fara 2009). Nel 2012 per le Edizioni d’If è uscito il poemetto I Resistenti, scritto con Carmine De Falco, tra i vincitori del Premio Russo – Mazzacurati. Nel 2014 per Prospero Editore ha pubblicato l’e-book La Renault di Aldo Moro con una prefazione di Guido Mattia Gallerani. Nel 2015 per Dot.com.Press-Le Voci della Luna ha dato alle stampe Ero altrove, finalista al Premio Gozzano 2015. Nel 2018 per Qudu è uscita una nuova edizione di Contratto a termine con la prefazione di Luca Mozzachiodi. Sempre nel 2018 ha curato il convegno su Pier Luigi Bacchini a Parma. Gli atti sono stati pubblicati nel 2022 per Ladolfi editore (Quel problema del cielo). Nel 2021 per Il Leggio Editore nella collana di Gabriela Fantato ha pubblicato La memoria dei senza nome con una prefazione di Alberto Bertoni e un’intervita di Luigi Cannillo. È redattore di Atelier e di Versante Ripido. Dirige per Bertoni la collana di poesia PoesiaLab. Organizza numerosi eventi a Parma. Sue poesie sono tradotte in francese, spagnolo e rumeno.

SEGNALAZIONE VOLUMI = MARCO PETRUZZELLA


**Marco Petruzzella: DiStanze – Edizioni Progetto cultura 2023 – pag. 58 - € 11,00
Opera prima di un funambolico cinquantaduenne che affonda con elettrizzante eleganza tra la musicalità degli endecasillabi e la fulmineità del verso breve, offrendo quel ritmo propizio alle occasioni del quotidiano e contemporaneamente alle vertigini del dubbio filosofico. Componimenti presentati in due distinti gruppi: “Giovanili” e “Moderne”, intimamente connessi ad un arco di tempo che segna con arguzia rivelazioni a volte plasmate dal sentimento a volte decisamente provocatorie, in attesa di una scoperta o di una invenzione che sia anche spazio scenico o trappola per sgomenti e svelamenti.
L’originale panorama si apre con il ricordo di una poesia di Ungaretti che illumina come un messaggio catartico e che porta con agilità verso la contemplazione della parola ricercata. “Gentile/ Ettore Serra/ poesia / è il mondo l’umanità/ la propria vita/ fioriti dalla parola/ la limpida meraviglia/ di un delirante fermento/ Quando trovo/ in questo mio silenzio/ una parola/ scavata è nella mia vita/ come un abisso.”
Affiora in queste poesie di Marco un venticello che provoca ed ammicca, che concede misure e accompagna attraverso accenni che conducono alla coscienza della realtà rotolante, che sorvegliano con cautela “fantasie color dell’ambra/ su primavere mai prossime a giungere” o capaci di piroettare “perso tra la folla/ e paura che folla non sia/ tra azzardi pindarici/ e vili svolte”.
Il colloquio diventa accattivante. Dalla “critica, con aspettative antiche/ sedimentate/ marcescenti” al “fiore colorato/ dal colore del tuo/ nome” le dimensioni del simbolo si allontanano dall’equivoco che spinge all’illusione come fondamentale finzione imposta alla nostra esistenza rutinaria. La parola privilegiata accoglie improvvisamente le illuminazioni che si ripetono nel giro di una clessidra, trascinando nel possibile gli eventi che ci opprimono nelle frazioni del tempo. Una sorta di rispecchiamento diviene libertà di ricerca e la poesia afferma le ragioni delle aspirazioni e delle lacerazioni, nella struttura che vagheggia la musicalità adamantina.
Le più semplici occasioni diventano l’incipit di un pensiero e di un gorgheggio così: “anche il fracasso di una betoniera/ se mischiato alla nebbia e/ al capriccio di un bambino/ col loden verde degli anni di piombo” è l’armonia di una rivelazione concreta.
Poesia per quadricromie e figurazioni mai oziose, con il suo andare ondulatorio e flessibile, con lo sfiorare memorie o con l’avvolgere significanze zeppe di metafore.
*
ANTONIO SPAGNUOLO

sabato 16 marzo 2024

SEGNALAZIONE VOLUMI = ANTONIO SPAGNUOLO


** Antonio Spagnuolo: "FUTILI ARPEGGI" - Ed. La valle del tempo 2024 - pag.120 - € 14,00 - con un saggio critico di Carlo Di Lieto
" Antonio Spagnuolo, il Poeta della Delicatezza"
La prima cosa che balza agli occhi, di questa preziosa silloge poetica, è la musicalità, il ritmo, spessissimo resi con il verso principe della Poesia Italiana: l’endecasillabo, che è anche il verso che più si adatta all’ampiezza dell’emissione vocale dell’uomo. Poi c’è la presenza dell’inconscio, del subconscio, del subliminale, permeati da un’armonia soave che si lascia prendere come un cucciolo al ritorno del suo amico umano; certo è difficile, ma se si superano le difficoltà dello scenario, essa si concede tutta al possesso del poeta.
Affiora nei paesaggi il mare, appena aggrinzito da un venticello che provoca, ammicca, pronto a concedersi a colui che con intelligenza d’intuito si sappia adeguare alla sua misura, per poi lasciarsi condurre alla coscienza; lo stesso venticello che ritroviamo negli accenni di un cielo non dissimile dal mare; uniche condizioni su entrambi: un lettore attento e consapevole.
È uno scenario teso all’apparizione, all’emersione, al lampo dello spirito indirizzato all’Oltre.
Il poeta, pur riscontrandolo, non si cura del tempo, inteso fisicamente, cioè secondo la comune tabella di: passato, presente e futuro, ma come percezione di una massa anonima, che si porge a chi tenta di carpirne il perché e il fine. Mi spiego meglio (e per questo mi perdonerete), citando un mio verso, sulla stessa lunghezza d’onda del poeta partenopeo: “…sogno nascente / in magma di pensiero.”
Leggendo, si scopre in Antonio la presenza di un orecchio attento e fortemente musicale, perché la Poesia è Musica, prima ancora di essere immagini, figure retoriche e metalinguaggio. Sono gli artifici letterari che la favoriscono?
Aggirando la domanda, per avvicinarmi ad una probabile risposta, dico che ciò spiegherebbe le oggettive impossibilità di tradurre in altra lingua, con adesione al 100%, di un poeta straniero. Il poeta si affida ad una sorta di alterazione della comune logica, per entrare nel subconscio, unico vero custode del passato e che, senza di esso, si avrebbe un anonimo presente ed un insignificante futuro. Come non percepire il piacere, anche omofono, di Antonio Spagnuolo in questo verso: “nel tepore della malinconia”? Spetta ad essa il compito di accompagnarlo nel suo viaggio ultra-umano, non dissimilmente da Virgilio per Dante, poiché la nudità della realtà si mostrerebbe vuota di significati trascendenti. Ci vuole il Sogno per scardinare la grettezza della presente realtà sociale, riportando la visione di una natura (anche spirituale) meravigliosa, come sarebbe senza la contaminazione attuale.
Ecco, tale è il compito del poeta; a lui la capacità di penetrare (e rendere all’onesto lettore) il tutto, che per essere compreso pretende un’attenzione ed un impegno simili a quelli di chi scrive nella ricerca della verità. Spagnuolo ha la sua bella ed armonica tavolozza ove intinge i pennelli dei versi per trascriverli sulla tela/pagina. Sa che “il tempo avanza rapido oltre la porta” del suo subconscio. Perciò egli lo irretisce e blandisce con le parole, delicatamente piegandolo al proprio desiderio di sapere, per sé e per coloro che non hanno la fortuna di saper fare versi. Così, come detto in precedenza, il mare e il cielo hanno gli stessi connotati, perché egli non insegue il comune significato rilasciato dal vocabolario, ma li trasforma in impulsi per scoprire la realtà che, come dice Montale nella poesia “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”, non è quella che si vede.
La delicatezza di Spagnuolo rifugge dalla violenza dei colori accesi, predilige le tenui trasparenze “dell’acquarello”, che redige in simboli capaci di rappresentare i concetti. Nonostante egli sappia i limiti e le amarezze che hanno segnato e segnano il nostro commino terreno, con il medesimo entusiasmo della gioventù, è capace di creare ed inseguire le favole alate che lo porteranno al sogno, e nessun acciacco o amarezza potrà mai lesionare. Esso sogno gli restituisce “dolce il ciglio dell’amata con il colore / della primavera”. Dovrei citare tutta la stupenda poesia “Fusioni di guerra” (pag. 15) per quella capacità onirica e agitativa che Antonio consegna al suo reportage, prezioso e suggestivo. Ma sempre con una finezza di fondo che si lascia scandagliare dal nostro io, pienamente convinto. Altra bella presenza in tante sue poesie ed è il suadente e raffinato erotismo che innalza il sapore del contatto “trasmutando la carne al tepore / delle alchimie”. Notate, Spagnuolo non urla il fuoco della passione, ma bisbiglia il tepore dell’unione. Infatti suggerisce il suo grado di lettura: è “Meglio ancora afferrare il suono / che fluttua fra gli occhi come vela”. Qui spinge un po’ la delicatezza usata altrove, suggerendo un vocabolo più deciso: “afferrare”.
Anche la religione è presente in lui quando scrive: “…Cristo stravolge la parola / per trasformare il futuro…” perché non sempre si riesce ad “allontanare provvide smemoratezze”. Nelle righe esprime un suo desiderio: “Qui vorrei che mi abbandonasse un Dio / nel guscio dei miei sentimenti”, perché la crudeltà, non della vita, ma degli uomini, è meglio affrontarla armati di corazza. Ci sarebbe tanto da dire sul suo convincente discorso che penetra nel cuore e nella mente fatto Arte Poetica, ma mi trattengo, non prima però di confessare che i suoi Futili arpeggi non sono né futili né semplici arpeggi, ma un crescendo di armonie che diventano Concerto del creato, nella pienezza della sua completa strumentazione.
La modestia è dote dei Grandi.
Mi complimento pure per la vena creativa, fresca ed originale, che dimostra come il cuore non invecchi mai. E che, per dirla con il Mario Luzi della poesia Diana, risveglio: “…tu ilare accorri e contraddici / in un punto la morte”.
Tanto di cappello, dunque, per questa nuova raccolta di Spagnuolo, che conferma ciò in cui io credo fermamente, e cioè che i versi debbano essere musica intrisa di parole.
Nella poesia Eppure (pag. 24), con una serie di distici, il poeta descrive la sua esistenza; sono versi studiati e precisi come il tiro con l’arco di un campione olimpico. Brillano, in uno stupore drammatico, due endecasillabi: “Eppure era soltanto l’altro ieri / che mi donasti un ultimo sorriso”. Nel dramma della scomparsa, vagola la delicatezza del sorriso di Chi parte verso chi rimane; un sorriso che arresta ogni cosa e stronca ogni forza.
Ma non è tutto concluso; il compito del poeta spinge il Nostro a tornare alla penna, onde narrare la restante sua esistenza in una suadente, ammirevole, stupenda volontà di scrivere, per lasciare qualcosa di sé ed onorare i talenti che alla nascita gli sono stati assegnati. Bellissimo è lo sviluppo della citata poesia, ove domina la ripetizione a distanza, ossia la figura retorica dell’Enumerazione, per l’incalzare delle parole in posizione non anaforica. Prima di congedarmi dal Poeta, mi è d’obbligo e di piacere la citazione dell’altrove pure presente nel registro di Antonio Spagnuolo, ed è “un alito sfiorato, / inquieto nella ricerca di un sussurro / che anela ad una sorta di abbandono”. C’è nelle sue pagine una sequela di endecasillabi che, come diamanti in un castone tutto d’oro, spiccano per evidente bellezza; alcuni dei quali li cito appresso, e si fissano nella mente appagata di chi legge. E sono:
-“Affondo nell’eterno ad occhi chiusi”,
-“…così cala il tumulto alla deriva / scivolando nell’eco di un richiamo”,
-“…verso la mia tarantola, incompiuta, / alle rare inquietudini di carne”,
-“Ormai la gioventù quasi scompare / nel molle desiderio, come stoppia…”
-“…vertigine di foglie ormai ingiallite”,
-“ Era il Calvario l’ultimo rifugio / dove il legno, confuso alle preghiere, / ha il segno della Croce”,
-“Mordono la schiena le parole / che sembrano lampeggi d’infinito”,
-“…nel perfido congegno delle stelle”.
Ecc. ecc.
Sono versi, degni di un futuro, che lasciano, in chi legge, l’appagamento di una soluzione.
Quale?
Quella che attende dentro di noi, docile e bellicosa, libera e prigioniera, musicale e muta, trasparente e colorata; aspetta nel subconscio per condurci all’Altrove. Questa è la delicatezza di un poeta che ha sofferto, che ha saputo soffrire e soffre, con dignità e capacità di raffrenamento in grado di non scaricare il dolore sul lettore, che invece, nota, in lui, una grande umanità fatta Arte. Quella poetica.
In conclusione, Futili arpeggi è un libro che vale la pena avere in evidenza nella nostra libreria, per rileggere ogni tanto qualche verso che ci rinfranchi e ci spinga ad andare avanti, convinti che tutto sia scritto, ma che tutto possa cambiare, nella speranza antica di una Guida, di un “filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità”. Questo scriveva Montale nella sua basilare poesia I limoni.
*
Getulio Baldazzi
Lanuvio 14/3/2024

martedì 12 marzo 2024

POESIA = RAYMONDE SIMONE FERRIER


**Il senso della vita**
Il senso della vita lo dà la mano tesa
al sorriso dell’impalpabile.
La pazienza dell’ascolto, la lentezza del giudizio
per giungere oltre l’orecchio oltre le labbra, oltre l’occhio
ad esplorare ogni correlato mondo; ogni sfumatura dell’altrui io.
Seppur silenziato, mezzo sepolto, che sta di fronte chinato
o in piedi degno, ma indifeso e fragile.
Il senso della vita lo dà l’arte di chi, di tocco delicato per sé necessita.
Di chi, con il solo cuore venire ascoltato vorrebbe e ascoltare sa.
La bellezza di chi, nell’altro non vede
nemico potenziale, ma il proprio riflesso soltanto.
Di chi legge nello sguardo oasi e non deserto.
Di chi condivide pane, se capita fame; naturale ingenuità.
Di chi, tutto rispetta, si cura del pianeta,
innaffia, pota albero, coltiva orto, annusa fiore.
Anche su orlo del dirupo.
Di chi sente il color dolore, il color Amore-
Di chi accarezza e nn offende bimbo, animale:
ingenua purezza offerta.
Il senso della vita, quando salute amore e pace
- quando l'essenziale tace- prepotente sul seno affiora.
Lo elargisceogni individuo grato al creato
e degno del bene che gli si dà.
Le persone capaci di volerne, quelle dotate di umana carità.
Il suo senso sono loro, gli esseri di statura,
le umili Persone con la maiuscola.
***
**Se ci sarò...non so bene***
Non so bene se ciò in cui inciampo sono io stesso,
i miai rami secchi che si nutrono dei miei trapassi,
le mie radici fuoruscite che uralno mute
ma mai paiono sazie d'oblio, di aberrazioni di luci e di abissi.
Non so bene se è nella mia bramosia di possesso
nella sua rovente freddezza che sono me stesso,
o nella macchia rugginosa e nel martirio
della mia vigliaccheri senza chiodi.
Forse nel desertificarsi dei miei sogni,
in qull'infierire a maledire ogni mia bella debolezza
ogni mia celeste illimitatezza
che la mia fine segnerò.
Ad aggredire la mia parte migliore, della linfa vitale il rispetto,
delle fronde e del frutto la lucentezza, esaltando il solo bellico potere
di scudo d'anima della corteccia.
Non so bene se cisarò, ma di tutto ciò non soccomberò,
e nel vecchio me di un tempo e nella sua diafana purezza
ogni tanto ancora bagnerò- se ci sarò -...
e ancora non mi avranno annientato le mie stesse pecche d'ombrre
la mia poca fede, la mia prepotenza,
la mia indifferenza all'altrui sofferenza,
nudo, pentito e con il cuore sanguinolento
- testimone tu, mio Signore,
a chiedere perdono dinnanzi a quel "me"
che almeno un pò avrebbe potutto essere Te-
imile mi prosterò.
E se trasuderò di nuovo sangue d'Amore
sarò presente al modo e a me stesso: ci sarò.
**
RAYMONDE SIMONE FERRIER

giovedì 7 marzo 2024

SEGNALAZIONE VOLUMI = GINO FIORE


***
"L' amore come forza salvifica, come esperienza liminare, come rassicurante approdo" "Nel diluvio" di Gino Fiore
"La preghiera è 'discesa della mente nel cuore' dicevano i Padri e così è il silenzio. Ma anche salita del cuore alla mente. Nel silenzio si discende come si discende nella preghiera e nella poesia per ascendere al sacro". (Lucianna Argentino, da La Parola in ascolto)
Riprendo solo ora, dopo anni, e con un cruccio acuto per aver perso una lezione di umiltà e di vita, in quanto il poeta, di cui qui si disquisisce, aborrisce il vuoto clamore dei salotti e la futile partecipazione ai premi letterari, ad eccezione dell'annuale e mitico Premio di Poesia "Libero de Libero" dove omaggia l'illustre concittadino con la declamazione di alcune celebri poesie e, avallato anche da fervide e toccanti testimonianze sul fraterno amico, il discorso su "Nel diluvio", uno dei volumi di liriche più suggestivi, luminosi, intensi e intrisi di respiro dell'essere, alla ricerca del Nostro Dio Supremo, Alfa e Omega della nostra esistenza, in perpetuo viaggio verso il Porto dell'unica Certezza, Salvezza in un diluvio eterno sulla terra, come recita, appunto, il titolo Nel diluvio (Fondi, Edizioni Confronto,1996), confluito nella solare e graffiante Opera Omnia Il fiume il mare-tutte le poesie- in cui farò anche qualche breve incursione (Marina di Minturno, Caramanica, 2013, prefazione di Pasquale Maffeo, dal titolo significativo Lo sguardo e il verso, e in appendice con una ricca bibliografia e importanti note critiche a firma di Guido Ruggiero, Mauro Corradini, Giorgio Agnisola e Alida Sessa che ripercorrono, attraverso una serrata disamina, il percorso di Gino Fiore, come poeta, scaltrito attore e drammaturgo). Già Pasquale Maffeo, con mano ferma ed esperta di ermeneuta, nella estesa, partecipe e dotta prefazione al testo originale, che è una ricognizione del lungo viaggio del Nostro Autore, evidenziava la sua incessante crescita, di volume in volume, "il suo travaglio di ricerca formale" (p.6), la sua "mano severa, mano che ha sceverato, ritoccato, riordinato", ripassando "al vaglio, potando e ampliando, il corpus via via articolato della terza silloge. Tappa, questa, riassuntiva ed emblematica di frastagliate fabulazioni, autobiograficamente speculare, affrancata dai tributi retorici e di stagione. Nel sinuoso divenire s'era diramata una filigrana che in trasparenza, controluce, coi suoi nodi e i suoi raccordi rimarcava una limpida nervatura" (p.7). Superfluo, inoltre, è ricercare nell’opera di Gino Fiore possibili ascendenze letterarie italiane e straniere o referenti poetici e drammaturgici, pur presenti, in quanto l’autore, talmente abile e scaltrito nel mestiere, riesce benissimo ad assimilare, introiettare, personalizzare e sublimare il riporto, come se le voci dei suoi “compagni di viaggio” fossero la sua, si confondessero nella sua e la sua voce si annullasse, amalgamasse in quella altrui, in quanto affinità elettive, lo stesso “io” parcellizzato e unificato nella stessa anima palpitante gli stessi battiti solari di un amore universale, così trascendendo l’esperienza strettamente personale, pur facendo sempre emergere il suo timbro soggettivo. È nel Diluvio il canzoniere d'Amore nel senso lato dell'accezione, nel quale, come ancora con acribia rileva Pasquale Maffeo, "si ritrovano le coordinate d'una geografia, d'un paesaggio etico-sentimentale nel quale Fiore riscrive la sua memoria d'uomo e proietta la carica pulsiva del suo presente, la sua inquietudine esistenziale", attraverso "filoni" che si dipanano su oniriche fascinazioni, aperte a crescite improvvise" (p.7).
Le tematiche, che Gino Fiore predilige, sono quelle universalmente riconosciute con cui l'umanità quotidianamente fa i conti e si misura e che vanno, in primis, dagli affetti familiari, comprendenti bellissime e struggenti liriche dedicate a moglie e figli, agli aspetti sociali, in un mondo sconvolto da catastrofi e paure nucleari, dai problemi strettamente personali a quelli esistenziali sostenuti da un credo religioso fortemente invocato e professato sulla terra come porto di Amore, Salvezza e beatitudine eterna.
Prendiamo, appunto, come emblema di questa sete, di questo Fuoco d'Amore, una delle tante poesie, che si apre, come un ventaglio, a molteplici significazioni, carattere polisemico, felicemente ambiguo della poesia, per evidenziare anche come il poeta abbia operato dal punto di vista linguistico e da quello immaginifico, sul testo, attraverso il cosiddetto labor limae, dal momento che "Se sapremo", di cui mi occuperò, confluisce nella succitata Opera Omnia, Il fiume e il mare, magistralmente ritoccata, questa volta, non togliendo ma sostanzialmente aggiungendo, mediante un procedimento inverso di quello che di solito si adotta intervenendo sulle varianti.
Ma importante e utile, per non dire chiarificatore, sarebbe vedere, attraverso un processo di collazione, di comparazione tra il testo originario e quello dell'Opera Omnia, come da me svolto, e qui non si può per ragioni di spazio, ripromettendomi di affrontare questo lavoro in un'altra sede, anche il criterio che il poeta ha adottato teso a rastremare, a togliere più che aggiungere, attraverso cui ottiene, alcune volte, risultati soddisfacenti, e altre, addirittura, strabilianti, intervenendo sul respiro poetico, sull'orchestrazione strofica e soprattutto su una incisiva sintesi, facendo rimanere, come negli ermetici, la parola ossificata, scarnificata, depurata, essenzializzata. Il tutto in un processo di scavo laborioso che attesta nell'uno (quello di integrare, come nella poesia esaminata) e nell'altro caso (quello di folgorare, rastremare) la scaltrita perizia e la scrupolosa meticolosità dell'artista.
Evidenziata questa precisazione, è il caso di riportare integralmente le due versioni, quella originaria e quella dell'Opera Omnia, per far notare i vari passaggi operati. "Nel diluvio" abbiamo: "Se sapremo guardarci negli occhi/eviteremo alle foglie di tremare nel vento,/all'acqua di correre, all'erba/di crescere,/alla vita di finire./Se sapremo tenerci per mano/non ci lamenteremo/del figlio che cresce in fretta,/dell'invito che tarda a svanire./Se sapremo camminarci accanto/sereni andremo nel mondo"(p.35). Invece, ne "Il fiume e il mare": "Se sapremo leggerci negli occhi/avrà voce il silenzio lungo il giorno/. Guardando foglie immobili nel vento non sentiremo scorrere/l'avviso che precipita a finire/. Se sapremo tenerci per la mano/senza toccarci, non un lamento/spunterà sul figlio che già stacca/l'addio e s'inoltra e dispare/. Se sapremo condurci inseparabili/ alle svolte dell'insidia, se sapremo/ tacere d'un amore che non chiede/più parole, la morte poi verrà/ senza sgomento all'ora giusta" (p.43).
La prima stesura è un unico blocco forse troppo compattato e compassato dal punto di vista strofico, non pausato, non contrassegnato, da quello spazio bianco tanto caro soprattutto agli ermetici, per la meditazione, la compartecipazione poeta-lettore, anche se mirabilmente sostenuto dall'aspetto anaforico di quel "se" ripetuto alla fine di ogni interpunzione che proietta la sete di vivere in un tempo infinito o indefinito e ossessiona come un monito evangelico la coscienza dell'essere di perseguire la via della Vita, la strada della salvezza, della Certezza eterna per non permettere "alla vita di finire", per imparare a "saper tenerci per mano", "camminarci accanto", sereni andare nel mondo, amare e vivere e rincorrere "il sogno nella luce" ("Questa non è una poesia", p.318). Certo, speranza o consapevolezza di guardarci, specchiarci nell'altro, fermando, attraverso la poesia, la fantasia, la fede dell'Amore o nell'Amore, gli elementi naturali, annullando anche il tempo. Ma la prima stesura, forse, viene assoggettata a una eccessiva incisività, mentre la seconda risulta più intrisa di lirismo, circostanziata, più scavata per lasciare affiorare sempre di più la solarità dell' interiorità, il tormento dell'essere nel perseguire una via fatta di silenzio, lo specchio della coscienza aperta al monito e al raccoglimento, all'ascolto del Verbo, del Redento. I verbi del primo blocco della versione originaria fino al quinto verso "alla vita di finire" delineano il tempo della fissità, dell'immobilità, del fermare, del crescere, dell'impedire "alla vita di finire". Nella strofa della seconda stesura, invece, il tutto viene affidato all'auscultazione del silenzio, ovvero della voce interiore, della pienezza dell'Essere, della Parola, del Verbo fatto carne, sangue nel tentativo di sconfiggere il nostro deserto, i giorni inariditi, alla riscoperta della Voce, del sogno d'Amore. Le risorse foniche dei cinque versi iniziali, ma questo si può estendere all'intera lirica, sono affidate alla reiterazione incessante e insistente della "e" e soprattutto della "r" che mira ad arrestare questo processo di disfacimento, di agonia della vita. Questa lirica dell'opera Omnia è, nel complesso, intrisa di un respiro ossessivo per la vita, affidata tutta a uno scarto linguistico, a una struttura ossimorica, per meglio svelare il senso dell'Essere, per poter potenziare ulteriormente le risonanze musicali, l'aspetto contenutistico e quello iconico-immaginifico che si aprono a una radiosa trasparenza o solarità delle immagini, assente nella prima stesura.
E’ una tenzone, si potrebbe dire, tra il giorno, che simboleggia l'Amore, o il sogno dell'Amore, e la Notte, in cui si identifica la Morte, la distruzione del sogno, "l'avviso che precipita a finire", davanti al quale o contro il quale bisogna resistere perché esso non si verifichi, la parola blaterata non sostanziata, inverata dal palpito e il Silenzio che invece esplode come "Voce", come tuono, auscultazione “lungo il giorno”, per poter tenere sempre desto il "Vento", non quello fisico, temporale, ma quello della Coscienza, del Risveglio.
La natura viene immersa in un paesaggio che diventa “pianta interiore dell’Anima, paradigma assoluto della vita che non deve finire, costante tensione o anelito a vivere il respiro divino, immersione nell’immobilità del naufragio in cui restare per rinascere, rigenerandosi.
Anche l’orchestrazione strofica, la scelta del verso lungo tra l’avvicendarsi dell’endecasillabo, del decasillabo, del novenario e l’ottonario, penso miri proprio a questo scopo, quello di far resistere e persistere la Voce, come auscultazione interiore, una confessione, come monito a vivere bene “lungo il giorno” per non poter essere oscurata dall’Ombra, fagocitata dalla Notte, come buio totale dell’anima.
I versi “Se sapremo tenerci per la mano/senza toccarci” della seconda strofa e quelli della chiusa “se sapremo/tacere d’un amore che non chiede/più parole” raggiungono il diapason dell’Amore e acuiscono, sempre di più, la condizione ossimorica, l’acme della Parola, che si fa silenzio, per auscultare il Verbo che è Essere e dà pienezza all’essere, attraverso il tacere, come il silenzio della preghiera che non proferisce e non chiede “più parole” ma la sola parola, il Logos, come se l’essere vivesse in una perpetua ascesi, in una “cella” di silenzio, attraverso il ricongiungimento con il Celeste, con il fiato del Creato, concreato nella nostra brama, che allontana Thanatos e ce lo fa accettare, francescanamente, “senza sgomento all’ora giusta”, senza paura, come un fratello o una sorella. Un viaggio, in definitiva, nell’amore che “lega il passato al presente e il presente al futuro” o “dell’amore inteso come forza salvifica, come esperienza liminare, come rassicurante approdo”, che converge “verso uno stesso orizzonte, quello dell’amore intravisto come porto sereno, come estremo, unico confine del presente e del futuro”. In ultima analisi, “E’ la ricerca di un approdo, è la scoperta, meravigliosa e meravigliata, di quel segno di unità che conclude nella pace di un intimo, misterioso dualistico disegno, il cerchio dell’amore” (Giorgio Agnisola, pp.341-342).
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Rocco Salerno
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Gino Fiore, Nel diluvio, Fondi, Edizioni Confronto 1996, in Il fiume e il mare, Tutte le poesie, Omnibus Poesia, Marina di Minturno, Caramanica 2013

POETI DA RICORDARE = BIAGIO PROPATO


***Lettera al numero uno inquilino di Propato***
Sii ogni lettera, ogni sillaba!
Percorri il letto terreno e astrale
Il grande carro, le vie labirintiche del tuo nome!
Hanno deciso di tagliarti i capelli, la testa
le viscere feconde per farne corde
per i loro violini letali.
Sii chi sei anche quando gli altri dimenticano
chi sono e sognano ville lussuose e poltrone
vacanze viziose oltre deserti in esotici mari
poetare ignorando il senso reale della scrittura.
Sii chi sei lontano dai bordelli mentali
dove vogliono convogliare chi tace per non mentire.
Sii sempre chi sei, l'inquilino numero uno di Propato!
Non sorprenderti se il mondo è ubriaco di crimine:
ce la puoi fare, vincere il mondo, sobrio restare,
come il perfetto amico Galileo tra le due sere...
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Dal volume “Solo un poema rotolante” Biagio Propato (Viggianello 1952-Roma 2022)